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Il destino sta per compiersi, la palla sul dischetto scotta, il cronometro segna un'ora esatta di gioco. Il primo tempo è scivolato via senza sussulti. Tolto un legno clamoroso di D'Amico, la Lazio è rimasta prigioniera di tensione e nervosismo. A Roma, poi, fa caldissimo, l'estate è arrivata in anticipo. E' una domenica storica, l'Italia è chiamata alle urne per il divorzio. Giorgio è lì, dietro la sfera, mentre gli ottantamila dell'Olimpico trattengono il fiato. L'arbitro Panzino ha appena accordato un calcio di rigore alla Lazio. Galeotta una mano di Scorsa su una iniziativa del solito Garlaschelli. "No, io non voglio vedere, Giorgio i rigori non li sa battere", bisbiglia l'amico Oddi dalle retrovie. "Ma Giancarlo, sembra rispondergli Chinaglia, ti pare che fallisco il gol dello scudetto? Le proteste dei giocatori del Foggia si sono finalmente placate. Giorgione, sotto la Sud, prende la rincorsa, calcia forte e centrale e beffa Trentini, vanamente proteso in tuffo. Lo stadio è una bolgia dantesca, il tabellone recita: Lazio 1 Foggia 0. Lo scudetto, il primo della storia, è a un passo. Quel gol dal dischetto sembra scacciare definitivamente tutte le streghe, la beffa napoletana dell'anno prima appare lontana un secolo.

L'Olimpico, avvolto da un mare di bandiere, ringhia e rumoreggia. Ancora mezz'ora e la banda Maestrelli sarà campione! Ma soffrire è nel destino della prima squadra della Capitale. Sì, perchè Garlaschelli torna protagonista con un ingenuo fallo di reazione ai danni di Cimenti che Panzino, giustamente, sanziona con il rosso. "Se i pugliesi pareggiano, mi ammazzano", pensa il dandy di Vidigulfo negli spogliatoi, fumando nervosamente. Manca ancora tanto, il Foggia ha bisogno di punti preziosi in chiave salvezza, la Lazio è in inferiorità numerica e un gol dei rossoneri di Toneatto rovinerebbe tutto. Maestrelli dalla panchina invita alla calma, i minuti passano, si aspetta solo il triplice fischio. Che arriva finalmente qualche istante dopo. La Lazio, per la prima volta, è campione d'Italia ! Il popolo laziale invade festosamente il terreno di gioco abbracciando i suoi eroi. C'è una immagine che più di tutte le altre spiega la tensione di quella meravigliosa domenica.

E' il volto tirato di capitan Wilson, portato in trionfo dalla folla impazzita di gioia. Sergio Petrelli, nella concitazione dei festeggiamenti, perde uno scarpino griffato Lazzarini. A quella calzatura ci tiene tanto, come fosse una pistola, gliel'ha confezionata su misura un amico di Ascoli. Ma non importa, la Lazio ha vinto. Roma si riscopre capitale anche del calcio. E' la vittoria di un gruppo fantastico, di una famiglia esemplare con un nonno come Lenzini e un padre come Maestrelli. E' il trionfo di una squadra irripetibile e matta, divisa in clan, ma che la domenica tornava magicamente unita, pronta a dar battaglia a tutti. E' lo scudetto dei gol di Giorgio Chinaglia, il leader del gruppo, del talento cristallino dell'esordiente D'Amico, delle geometrie perfette di Frustalupi, dei polmoni di Cecco, della grinta di Oddi e Wilson, dell'imprevedibilità di Garlaschelli.

Wilson Maestrelli e Chinaglia abbracciati in campo dopo la vittoria dello Scudetto

E' la vittoria di una società e una città poco abituate a vincere, ecco perchè la gioia è più grande. "Uno scudetto a Roma ne vale dieci altrove", chioserà Petrelli più tardi. Pulici, intanto, deve correre a Milano. Mentre Chinaglia firmava la rete numero 24 dal dischetto, nasceva il suo Gabriele. Prima, però, deve raggiungere in ospedale l'infortunato Martini, il pilota, che nella fretta ha portato con sè le scarpe di Felice. Una squadra bella e maledetta per tutti i lutti che sappiamo. "Se c'è una squadra romanzesca e letteraria, questa è proprio la Lazio", dirà Giorgio Porrà, raffinato aedo del football, mezzo secolo dopo. "Lazio nel sogno", titola il Corriere dello Sport il giorno dopo. Una favola che oggi spegne la candelina numero 50. Di Lazio ci si ammala inguaribilmente. 

Auguri, cara vecchia Lazio!

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